A Dakar ormai è primavera inoltrata, il vento fresco dell’Atlantico spinge le onde sulla piccola spiaggia di Ouakam, un quartiere di pescatori dell’antica etnia dei Lebou, dove sorge anche la Moschea della divinità con i suoi due minareti che si innalzano davanti all’Oceano. Poco distante, una mastodontica statua di quasi cinquanta metri, di recente costruzione, che dovrebbe simboleggiare la liberazione dal giogo coloniale. Lo hanno chiamato il monumento alla rinascita africana, un’opera in bronzo commissariata ad una azienda nord coreana, costata un’occhio della testa, specie in un paese come il Senegal, che vive cronicamente una crisi economica generata da corruzione, peculato, privatizzazioni pilotate dei beni pubblici e delle risorse naturali a favore di multinazionali occidentali ed asiatiche -perlopiù francesi e cinesi-, una necrotica dipendenza e sottomissione politico-economica francese e ladronerie di ogni genere; insegnamenti frutto di un’ eredità culturale del profitto, lascito di un nefasto passato coloniale, non poi così remoto. A poche centinaia di metri dall’enorme statua del rinascimento africano, sorge paradossalmente una base militare francese, che appare come un monito ostativo a tale rinascita. Dakar come molte altre città e villaggi del Senegal, è stata travolta ormai da giorni, da massicce proteste innescate dall’arresto del leader del partito PASTEF Ousmane Sonko, principale oppositore al presidente Macky Sall. L’arresto di Sonko è stata la scintilla che ha acceso la rabbia dei giovani e dei lavoratori senegalesi, ma è un malcontento che viene da lontano. Nonostante il Senegal qualche decennio fa fosse considerato “avanzato” per quanto riguarda la democraticità, in un continente dove la democrazia, seppur in lato sensu, era una vera un’utopia, non è stato in grado per le ragioni sopra riportate di raggiungere uno sviluppo definitivo, anzi negli ultimi quindici anni ha subito una vera e propria regressione politica, che ha condannato centinaia di migliaia di donne e uomini all’immigrazione, che per molti di loro si è trasformata in una condanna a morte tra le onde e del Mediterraneo, nel frattempo divenuto un cimitero senza lapidi, solo resti di imbarcazioni e corpi, senza vita e senza nome, come testimoni silenti di una strage che si sta consumando in questo secolo buio. Le lapidi ci saranno, anche se non saranno di consolazione a nessuno, invece per i manifestanti uccisi dalla polizia durante gli scontri: almeno 15 persone sono morte, tra cui un ragazzo di quattordici anni del Casamance. La pantomima del lutto nazionale in memoria delle vittime indetta dal presidente Macky Sall, è una vomitevole sceneggiata di indulgenza che appare come un tentativo di placare gli animi, evidenziando un totale stato smarrimento di tutta la leadership senegalese difronte a queste proteste, il cui totale silenzio sulla situazione suona come una conferma. Ma il grido dei manifestanti non è rivolto solo contro il presidente Sall, ma si è fatto eco arrivando fino in Francia. Molti i simboli del potere neocoloniale francese sono stati presi di mira dai manifestanti: distributori di benzina Total, supermercati Auchan, caselli autostradali Eiffage e slogan contro Macron, considerato il garante e protettore di Macky Sall. L’arresto di Sonko ha fatto saltare definitivamente il banco, ha scardinato quelle resistenze che impedivano agli sfruttati senegalesi di rivoltarsi contro un governo corrotto e tirannico, una marionetta manovrata dai francesi. Queste rivolte determinano il fallimento di Macky Sall, contemporaneamente a quello delle politiche neocoloniali occidentali. Intanto in Senegal si continua a manifestare, la rinascita africana passa pure da questo, la devono forgiare i suoi protagonisti con la lotta e non in una qualche acciaieria di Pyongyang sottoforma di monumento.