Alcuna pace è possibile per la classe operaia italiana.
La defezione è della multinazionale Arcelor Mittal che ha dato notizia al governo di non essere più interessata al contratto di acquisto delle fabbriche del gruppo Ilva e il cui polo produttivo di maggior rilievo è proprio rappresentato dall’impianto di Taranto.
La crisi come è risaputo, non risparmia alcun settore produttivo ed investe anche la siderurgia. L’industria siderurgica europea registra infatti, al momento attuale, un eccesso di capacità produttiva per 80 milioni di tonnellate e descrive una situazione che presenta importanti problematiche di sostenibilità economica ma anche e soprattutto sociale e non ultima, in Italia, ambientale (senza escludere gli interessi geopolitici). L’eccesso di capacità produttiva d’acciaio non appartiene soltanto al’Europa ma è mondiale e con un surplus quantificabile in 542 milioni di tonnellate.
E per sovra-produzione si intende quella che non può realizzarsi, senza che il capitalista non ne ottenga un profitto.
E qui, arriviamo alla questione Arcelor: non è escluso che l’azienda cerchi di accreditarsi ulteriormente dal punto di vista negoziale dopo aver stabilito, lo scorso anno, tramite l’accordo siglato con governo e sindacati, di poter mandare 3000 lavoratori a spasso e sotto la voce “ammortizzatori sociali” ricevere centinaia di milioni di euro.
Si rischiano intanto altri 5000 esuberi, mentre la stessa si agevolerà di un’abbattimento del canone di affitto da pagare allo Stato prima che diventi proprietaria degli impianti e remota, non è neanche la chiusura di tutti gli altoforni per i quasi gli 11.000 lavoratori che si troverebbero da un giorno all’altro senza lavoro.
La responsabilità? Il governo, la Lega-5Stelle precedentemente e ora, la maggioranza PD-5stelle ma anche le dirigenze sindacali come Bentivogli, segretario dei metalmeccanici della Cisl, lacché dei padroni, la Fca di Marchionne di ieri e l’Arcelor di oggi. Camusso, Landini, la prima nel 2018, all’epoca dell’accordo, segretaria Cgil, l’altro successivamente designato a raccogliere il testimone e nessuno di questi ad esimersi nel parlare di vittoria dei lavoratori, esaltando le esternazioni del ministro Di Maio, plaudito alla volontà di Arcelor di “tutelare i lavoratori”, nel frattempo che gli esuberi erano giunti al numero di 3000 aggravando ulteriormente le condizioni della crisi attuale.
E ciliegina sulla torta: l’accordo firmato dai dirigenti di Usb che seguendo le disposizioni dei burocrati confederali, hanno di fatto rinunciato alla possibilità che si creassero le premesse di una resistenza tra gli operai dell’ Ilva che per l’ennesima volta, venivano ingannati.
La crisi dell’Iva ha il duplice significato di rappresentare il polo industriale che conta il numero maggiore di operai che vi lavorano e vi sono coinvolti e di essere la più grande acciaieria in Europa.
Al varco si attendono l’Alitalia e Fca: chi potrà oramai credere che le fabbriche non incorreranno nel rischio di chiusura, dopo la fusione con Psa?
Non siamo qui a dispensare ricette, dato che la soluzione è semplice quanto inevitabile: perché i licenziamenti non fiocchino, per la salvaguardia del salario e del lavoro e perché il diritto alla salute non si condideri un’opzione piuttosto che la legittima condizione alla vita, va occupata la fabbrica, espropriata e senza indennizzo e soprattutto sotto controllo dei lavoratori. Affinché ciò accada, è necessario che gli operai realizzino che è possibile produrre, riappropriandosi del proprio plusvalore e in un altro modo che non sia il profitto.
Abbiamo da riprendere un percorso abbandonato non solo in prassi ma in consapevolezza politica. Solo i lavoratori possono e devono darsi direzione. Che lo sappiano ma che lo realizzino realmente, soprattutto perché non esistono governi amici o padronato che non abbia più a cuore il proprio interesse particolare che la salvaguardia dei posti di lavoro degli uomini che sfrutta e che lo arricchisce.