IL RUOLO IMPERIALISTA DELL’ITALIA IN LIBIA E NEL RESTO DELL’AFRICA

di Niccolò Lombardini

Qualche giorno fa il vice premier Luigi Di Maio ha fatto alcune dichiarazioni riguardo la responsabilità di alcuni stati europei, in particolare la Francia, di tenere economicamente sotto scacco il continenti africano impoverendolo. Esternazioni veritiere, se non fosse che sono arrivate puntuali come un orologio svizzero, proprio mentre in Libia si sta consumando uno scontro per il controllo dei giacimenti petroliferi, che riguarda direttamente l’Italia.
Nello scacchiere libico, da una parte troviamo  il Feldmaresciallo Khalifa Haftar, signore della guerra,  generale della Cirenaica, uomo legato all’Eliseo e leader delle Forze armate libiche di Tobruk. 
Dall’altra  l’attuale presidente Fayez Al Sarraj, riconosciuto dall’ONU e interlocutore principale del governo italiano nel paese nord africano.
 La disputa riguarderebbe i giacimenti di idrocarburi presenti nel Fezzan, una regione desertica del  sud della Libia, terra di nessuno, confinante con Algeria, Niger e Ciad. Nella zona sono presenti due dei più grandi giacimenti di tutta la Libia: il campo di Al Sharara  gestito da una joit-venture composta da Repsol, Total, Omv e Statoil, capace di produrre piu di 315.000 barili al  giorno, ed il campo di El Feel,  detto “Elephant”, gestito da Eni con una produzione giornaliera che può raggiungere i 125.000 barili. 
Pochi giorni fa il presidente libico Fekyr al Sarraj, aveva comunicato che i giacimenti nella regione del Ferraz erano stati messi sotto sicurezza dalle armate fedeli al governo di Tripoli e da alcuni membri delle tribù Tuareg guidate dal generale Ali Kunan. 
Mercoledi 6 febbraio però le truppe di Haftar, che da giorni presidiavano la zona, hanno comunicato di aver preso il controllo del campo di Al Sharara dopo un’offensiva lampo, costringendo le armate di Tripoli a ritirarsi nel campo di El Fell. Negli scontri risultano essere morte circa 16 persone, tra cui alcuni membri delle comunità locali, contrariamente a quanto riporta la Francia e le fonti vicine ad Haftar.
Il fatto che Khalifa Haftar, dalla Cirenaica abbia inviato delle truppe nel Fezzan, rientra in un gioco di potere molto intricato, che viene però  giustificato  –  secondo Haftar-  dalla necessità di mettere in sicurezza la regione dalla presenza di ribelli  armati ostili al presidente del Ciad Idriss Dèby, i quali  usano la zona di confine a sud della Libia, come base logistica da cui far partire le loro incursioni armate contro il governo di N’Djamena. 
Proprio la scorsa settimana  un intervento militare dell’esercito ciadiano coadiuvato dall’aviazione francese, ha scongiurato un tentativo di colpo di stato in Ciad, dopo che una colonna di centinaia di ribelli armati, aveva varcato il confine libico, riuscendo  ad entrare nel paese con l’obiettivo di rovesciare Idriss Dèby. 
Il generale Khalifa Haftar, attualmente è alleato con Idriss Dèby, solo per il fatto che  hanno un nemico in comune, ovvero i ribelli ciadiani, che  più volte hanno appoggiato sia le Milizie di Misurata, che le brigate di difesa di Bengasi entrambe ostili ad Haftar. Idriss Deby invece è un uomo dei francesi e garantisce ad essi la leadership nel paese per quanto riguarda il discorso energetico. La Francia a sua volta usa Haftar per due ragioni: 
la prima è  non lasciare i giacimenti del Fezzan in mano al governo di Tripoli, favorendo quindi Eni, la  seconda è  contrastare l’incursioni in Ciad dei ribelli ostili a Dèby, i quali potrebbero scatenare nel paese saheliano un’instabilità politica che metterebbe in pericolo gli interessi economici francesi. Ma l’intervento militare francese in Ciad va visto anche da un’altra prospettiva, ovvero quella di confermarsi come il principale partner  economico-militare del paese africano, dopo che negli ultimi tempi il governo di N’Djamena aveva iniziato a guardare verso altri lidi, ad esempio Italia ed Israele, come confermano i viaggi in Ciad di Giuseppe Conte e Benjamin Netanyahu.
 

La Francia che non ha nessuna intenzione di veder rimpicciolire la propria area d’influenza nel continente africano, dopo che già si è vista “scippare” ad ottobre dall’Italia il primato in Libia, con l’accordo tra British Petroleum ed Eni, che prevede la cessione da parte dei britannici del 42,5% dei giacimenti in loro possesso a favore del gruppo italiano, che non solo avrà il compito di riattivare l’estrazione nei campi ormai chiusi da più di quattro anni, ma ne diventerà il principale operatore. 
L’altro 42,5% invece rimarrà alla BP, mentre il restante 15%  sarà gestito dalla NOC ( National Oil Corporation), il gruppo petrolifero nazionale libico. L’unica istituzione capace attualmente di unire tutto il paese, essendo riconosciuta sia dal governo di al Sarraj, che da quello di Tobruk. L’esclusione dei francesi di Total nell’affare non ha certo lasciato indifferente Parigi, che oltre a non poter sfruttare i giacimenti britannici, vede aumentare notevolmente il peso dell’Italia in Libia.
Il Vice Premier Luigi Di Maio, logicamente non accenna a tutto questo, facendo passare l’Italia come un paese che non nutre minimamente interessi imperialisti. Il governo italiano attacca l’Eliseo non perchè ha a cuore i problemi dell’Africa ma perchè ha paura di perdere i capitali prodotti da Eni tramite le risorse energetiche libiche, specialmente dopo che di Haftar minaccia di non volersi fermare ad Al Sharara, ma di  voler proseguire con la sua operazione nel Fezzan. Cosa che mette in serio pericolo i giacimenti della zona gestiti dal colosso italiano.

Anche l’Italia comunque cerca di tenere aperti i canali con Haftar – come testimonia la visita del Feldmaresciallo della Cerenaica a Roma – per tutelare i campi gestiti da Eni nel Fezzan  e per cercare di espandere l’attività petrolifera nell’Est della Libia, ed a Ovest dove i giacimenti sono controllati da milizie fedeli ad Haftar, ma nonostante ciò attualmente la Francia continua a rimanere il principale alleato;  anche se in Libia, come del resto in tutti i conflitti, le alleanze sono molto flebili e spesso variano in base a  chi offre più garanzie sia politiche che economiche. L’esempio più evidente è quello dell’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, che nonostante l’appoggio ribadito più volte a Khalifa Haftar, ha continuato a stringere accordi economici ed esplorativi offshore con Italia e USA, non preoccupandosi minimamente degli equilibri economici in atto in Libia. Giusto lo scorso giugno Eni,  ha comunicato di aver individuato davanti alle coste egiziane il più grande giacimento di gas Noor mai scoperto prima, che verrà gestito da Eni ed ExxonMobil. 
Sembrerebbe che a rimettere ultimamente  al-Sisi sulla via di Tobruk, sia stata l’influenza della Russia di Putin, che in contrapposizione all’ONU, per affermare la sua presenza in Africa – con la compagnia petrolifera russa Rosneft ormai inserita nel contesto libico- ha scelto di sostenere Khalifa Haftar inviando armi e soldati pronti ad addestrare le milizie della Cirenaica. 
E gli Stati Uniti in tutto questo caos, cosa fanno?  Dopo un periodo di stand-by dovuto alla decisione di bloccare le importazioni di petrolio libico, a favore del Saharan Bend prodotto in  Algeria, sembra che l’amministrazione Trump stia tornando a puntare sulla Libia, cosciente che altri stati, in particolare l’Italia, hanno acquisito un peso notevole nel settore energetico, cosa che a Washington non dispiace affatto forte dei rapporti con Roma. 
Anche militarmente gli Usa sono tornati ad essere operativi  in Libia, è notizia di ieri il bombardamento di alcune postazioni di al-Qaeda, situate nei sobborghi di Ubari. La  città era stata  conquistata pochi giorni fa dalle truppe di Khalifa Haftar ed è geograficamente molto vicina al campo petrolifero di Al Sharara. 
Insomma, è molto probabile che nel giro di poco tempo se ne vedano delle belle, visto anche l’avvento di una  nuova crisi politica in atto in Libia. 
Tornando ad Eni, gli interessi del colosso italiano non si limitano solo alle risorse energetiche dell’area del maghreb, ma si estendono in tutta l’ Africa: Nigeria, Gabon, Mozambico, Liberia, Ghana, Costa d’Avorio, Sud Africa, Kenya, Repubblica del Congo , Sudan e  Angola.
In alcuni di questi stati, l’Eni, oltra ad aver creato disastri ambientali come nel delta del Niger, è stata più volte coinvolta in scandali di corruzione; perchè l’Italia sa “ungere” bene quando ci sono da ottenere gli appalti sui giacimenti, come la maxi tangente di Eni e Shell, pagata ad alti funzionari del governo nigeriano per acquisire la licenza per esplorare il giacimento Offshore Opl 245. La tangente avrebbe permesso  alle due multinazionali di non pagare 6 miliardi di dollari di tasse alla Nigeria, impoverendo il paese, visto che la  cifra equivale a due anni di spesa pubblica nei settori di sanità e istruzione. 
Ma l’Italia non è solo Eni, non a caso siamo la terza nazione al mondo dopo Cina e Emirati Arabil, per capitali investiti in Africa. Ad esempio, c’è la Salini Impregilo che opera in 8 paesi africani e porta avanti progetti di edilizia come la diga idroelettrica sul fiume Omo in Etiopia, dove centinaia di persone sono state uccise e torturate perchè si opponevano ad un’opera che metterà in  serio pericolo la sicurezza alimentare per circa 100.000 persone. Anche l’azienda dolciaria Ferrero sta investendo molto in Africa; nascondendosi dietro la maschera dei progetti umanitari, mira ad esempio alle piantagioni di cacao del Camerun.
L’Italia forse ostenta meno il suo ruolo imperialista rispetto alla Francia, che in determinati paesi agisce come se fossero sotto il suo  protettorato, ma a suo modo, il “bel paese” contribuisce in maniera determinante allo sfruttamento del continente africano,  incrementando conflitti e povertà, costringendo così milioni di persone ad emigrare dai propri paesi per fuggire da guerre e carestie.
Chi impoverisce chi? 

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